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Diciotto saracinesche che si abbassano ogni singolo giorno in Italia: un dato che dovrebbe scuotere le fondamenta del nostro Paese, eppure sembra che nessuno voglia alzare la voce. Federazione Moda Italia-Confcommercio ha lanciato l’allarme da Courmayeur, snocciolando numeri che parlano di un’emorragia senza fine: nell’ultimo anno, il fashion retail italiano ha visto chiudere 18 negozi al giorno, un ritmo ancora più forsennato rispetto al passato recente. Negli ultimi cinque anni, il bilancio è da brividi: oltre 23mila attività commerciali sparite nel nulla e più di 35mila posti di lavoro evaporati come neve al sole.
Ma dove è finito il mito del “made in Italy”, quello che ci ha resi un faro di stile e creatività nel mondo? La realtà è che il settore sta colando a picco, e la sensazione è che ci stiamo abituando a questo lento funerale senza battere ciglio. Per i brand del fashion, specialmente quelli del luxury, questo è un segnale d’allarme: il retail fisico non è solo un canale di vendita, ma il biglietto da visita della loro identità. Se i negozi muoiono, cosa resta di quell’esperienza esclusiva che il lusso promette? Possibile che nessuno si renda conto che stiamo svendendo un pezzo della nostra anima?
Fashion: saldi flop e consumi a picco, sveglia!
L’ultimo anno è stato un anno nero per il fashion retail, e non ci sono giri di parole per edulcorare la pillola. Un calo medio delle vendite del 4,2% rispetto all’anno precedente, e i saldi invernali di inizio anno che dovevano risollevare le sorti? Un disastro totale, con una flessione del 5,5% che ha mandato in tilt sei imprese su dieci, secondo l’indagine di Federazione Moda Italia. Altro che ripresa: qui si parla di un settore in caduta libera, con i consumatori italiani che hanno deciso di voltare le spalle alla moda, riducendo i consumi familiari di oltre il 10% negli ultimi cinque anni.
Ma fermiamoci un attimo: è davvero colpa della “gente che non compra” o c’è qualcosa di più profondo che stiamo ignorando? Il sistema del retail tradizionale è in crisi strutturale, schiacciato da un mercato che premia l’online e penalizza chi non si adegua. Per i brand del lusso, questo è un terremoto: il negozio fisico non è solo un punto vendita, ma un tempio dove si celebra il loro mito. Se i saldi non funzionano più e i clienti spariscono, come possono questi marchi continuare a giustificare prezzi stellari e promesse di esclusività? Forse è ora di smetterla di nascondersi dietro un dito e affrontare il problema alla radice: il fashion italiano sta morendo, e il luxury rischia di perdere il suo piedistallo.
Fashion e tax free: turisti sì, ma il retail italiano affonda
In mezzo a questo mare di brutte notizie, c’è un piccolo spiraglio che Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia, sbandiera con orgoglio: il turismo dello shopping. Grazie all’abbassamento della soglia del tax free shopping da 154,96 a 70 euro, voluto dal Ministero del Turismo e spinto da Confcommercio, le transazioni sono schizzate del 54% e la spesa è cresciuta del 12%, con 500mila nuovi shopper che hanno invaso città come Catania (+73%), Como (+69%), Napoli (+63%) e persino borghi come San Gimignano (+63%). Dati che fanno brillare gli occhi, ma che non raccontano tutta la storia.
Sì, i turisti comprano, e per i brand del luxury questo è ossigeno puro: le boutique nelle città d’arte diventano vetrine perfette per attirare i portafogli internazionali. Ma i consumi interni? Quelli restano a terra, schiacciati da un -10% in cinque anni e da politiche commerciali selvagge di fornitori, e-commerce e outlet che giocano sporco, come denuncia Felloni. “Stesso mercato, stesse regole”, tuona lui, ma chi le applica? Il retail italiano tradizionale sta affondando, e il lusso rischia di ritrovarsi a fare affidamento solo su ricchi stranieri, trasformando le nostre città in parchi a tema per turisti invece che in cuori pulsanti di cultura e commercio. È una vittoria a metà, che non salva il settore ma lo tiene in vita con un respiratore artificiale.
Fashion e desertificazione: il made in Italy rischia l’estinzione
La parola d’ordine è desertificazione commerciale, e dovrebbe farci rabbrividire tutti. “Se i negozi chiudono, chi farà nuovi ordini per la produzione made in Italy?”, si chiede Felloni, e la domanda resta sospesa come un macigno. In Lombardia, per dirne una, i negozi sono calati del 24% in dodici anni, con i centri storici che hanno perso il 27,5% delle loro attività: parliamo di 1.365 saracinesche giù solo nei cuori pulsanti delle città, da Bergamo a Pavia. È una strage silenziosa che minaccia l’intera filiera della moda italiana, quel sistema che per decenni ha fatto girare l’economia e dato lavoro a migliaia di artigiani, stilisti e commercianti.
Per i brand del fashion, soprattutto nel luxury, questo è un cortocircuito mortale: il made in Italy non è solo un’etichetta, è una storia di territori, botteghe e savoir-faire. Se i negozi spariscono, chi terrà in vita questa narrazione? I colossi dell’e-commerce? I temporary shop? Siamo seri: senza un retail fisico forte, il lusso italiano rischia di diventare un guscio vuoto, un marchio senz’anima venduto su Amazon o in qualche outlet di periferia. È un declino che non possiamo permetterci, ma che stiamo lasciando accadere con una noncuranza spaventosa.
Fashion nei centri storici: città svuotate, lusso in bilico
E poi c’è il dramma dei centri storici, quei luoghi che dovrebbero essere il biglietto da visita dell’Italia e che invece si stanno svuotando a vista d’occhio. Carlo Massoletti di Confcommercio Lombardia lo dice senza mezzi termini: la desertificazione commerciale non è solo una questione di soldi, ma un colpo al cuore della nostra qualità della vita. Meno negozi significano meno socialità, meno sicurezza, meno identità. In dodici anni, città come Brescia, Como e Monza hanno visto crollare il numero di attività, con una perdita del 27,5% nei centri storici e del 21,2% altrove.
È una fotografia desolante che dovrebbe farci arrabbiare: stiamo lasciando morire i nostri borghi e le nostre piazze, trasformandoli in musei a cielo aperto senza vita. Per i brand del fashion e del luxury, questo è un disastro sotto mentite spoglie: il negozio in centro non è solo un punto vendita, ma un simbolo di prestigio, un luogo dove il cliente respira l’essenza del marchio. Se i centri storici si spengono, il lusso perde il suo palcoscenico naturale, costretto a rifugiarsi in asettici centri commerciali o nell’anonimato dell’online. Possibile che non ci rendiamo conto di cosa stiamo perdendo? La moda italiana non è solo business, è cultura, è storia, è il nostro DNA. E noi la stiamo abbandonando come se fosse un peso, invece di combattere per salvarla. Sveglia, prima che sia troppo tardi!
La riflessione finale è amara: se non troviamo il coraggio di reagire, difendendo il retail e la filiera che lo sostiene, il mito della moda italiana diventerà un ricordo sbiadito, venduto a buon mercato sul web o nelle mani di chi non ne capisce il valore. È ora di scegliere: lasciamo morire il nostro patrimonio o lottiamo per riportarlo in vetta?