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Michela Bobbo
Il potere del racconto nella comunicazione sociale e il peso del silenzio
Viviamo in una società in cui la comunicazione sociale è potere: chi racconta per primo, o meglio, la propria storia orienta la percezione collettiva, costruendo una verità condivisa. Ma cosa accade quando una voce non trova spazio? Quando una versione dei fatti non viene ascoltata perché si è uomini, con una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (DPTS) causato da un trauma cranico, e si è stati vittime di manipolazione emotiva da parte di una persona con tratti narcisistici?
Quando si cerca aiuto, ci si ritrova fraintesi, colpevolizzati o ignorati. Feriti, isolati, etichettati. Chi ha causato il danno viene spesso giustificato, protetto, magari per una questione di genere. La narrazione pubblica, persino quella giudiziaria, si basa sull’assunto che gli uomini siano sempre forti, mai vittime.
Raccontare, allora, non è solo uno sfogo: è un atto necessario. È un modo per rimettere ordine dentro, ma anche fuori. Un gesto di verità, di giustizia personale, di riconquista di sé. Soprattutto quando quella giustizia formale, in cui hai sempre creduto, ti ha voltato le spalle. Raccontare – nel modo giusto, al momento giusto – può rompere un silenzio che altrimenti soffoca, che normalizza l’ingiustizia e cronicizza il dolore.
Raccontare può impedire che la ferita diventi identità. Questa storia riguarda non solo chi la vive, ma anche i figli che ne subiscono le conseguenze e chiunque, in situazioni simili, non abbia la forza di parlare. Non raccontarla sarebbe una violenza ulteriore. Non si cerca attenzione né compassione, ma un modo lungo e doloroso per riprendersi ciò che è stato tolto.
Un vuoto da colmare: l’inizio della manipolazione relazionale
In un momento di estrema vulnerabilità, un incidente improvviso aveva sconvolto ogni equilibrio, lasciando cicatrici profonde. La diagnosi di DPTS, arrivata dopo mesi di ospedale, cercava di dare un nome al caos interiore. In quella fase, con ogni punto di riferimento sgretolato, il bisogno di stabilità e conforto era disperato. In quel vuoto si è inserita una persona che sembrava empatica, accogliente, solida, colmando ogni mancanza con attenzioni e disponibilità.
A posteriori, grazie ai professionisti, è emerso che i segnali di manipolazione narcisistica erano già presenti, ma una mente traumatizzata non poteva riconoscerli. La manipolazione relazionale si insinua dove le difese sono basse, sfruttando il bisogno di rifugio. Chi manipola sa mostrarsi indispensabile, riempiendo i vuoti con parole desiderate. “Ti seduce con la cura, ti avvolge nella premura, ti fa credere di essere stato scelto per ciò che sei, mentre in realtà sei scelto per ciò che si può ottenere da te nella tua fragilità.”
L’errore, umano, è stato confondere presenza con affetto, attenzione con reciprocità. In quelle condizioni, era difficile agire diversamente. La relazione nasceva dal bisogno di sollievo, non da una scelta consapevole, offuscando il giudizio. In altri contesti, si sarebbero notati il controllo mascherato da premura, l’ambiguità travestita da empatia. Il narcisismo covert non usa aggressività esplicita, ma un logoramento mentale lento.
“Ti portano a chiedere scusa anche quando sei tu a soffrire, a giustificare comportamenti che altrove riconosceresti come tossici.”
Con tale abilità, si finisce per credere di essere il problema. Riconoscere che non è colpa di chi subisce, ma il risultato di una fragilità incontrata da una strategia manipolativa, è il primo passo per trasformare una ferita in consapevolezza.
Vivere il DPTS: un trauma amplificato dalla manipolazione
“Chi soffre di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) è una persona che sta affrontando una profonda sofferenza a causa di un trauma, vivendo intensamente flashback, incubi e pensieri intrusivi, con una persistente sensazione di pericolo.” In costante ipervigilanza, queste persone evitano situazioni legate al trauma, sviluppando pensieri negativi, distacco e perdita di interesse. La vulnerabilità è acuita dalla sfiducia e dall’insicurezza.
Gli specialisti sottolineano che l’aggressività verso gli altri è rara; più spesso, la sofferenza si interiorizza o si manifesta in comportamenti autodistruttivi, iperattivazione o difficoltà a regolare le emozioni, che sono manifestazioni della tensione interna, non di vera aggressività o violenza.
La manipolazione relazionale, specie da persone vicine, aggrava il DPTS, invalidando il trauma, erodendo la fiducia, aumentando ansia, colpa e vergogna, fino a causare re-traumatizzazione. Fattori come isolamento sociale, nuovi stress, atteggiamenti accusatori o difficoltà lavorative peggiorano il disturbo. “È fondamentale che chi soffre di DPTS riceva supporto qualificato in un ambiente non giudicante.” La manipolazione sociale ha sfruttato questa vulnerabilità, trasformando il bisogno di aiuto in una trappola emotiva che ha intensificato il dolore e complicato il percorso terapeutico.
La rete invisibile della manipolazione narcisistica nella comunicazione sociale
Michela Bobbo
Quando la giustizia ignora le vittime nella comunicazione sociale
Alla fine della relazione, si è cercato inizialmente un confronto via chat e, dopo la richiesta di interrompere i contatti, sono state inviate solo un paio di email gentili per chiedere un chiarimento, poi avvenuto telefonicamente senza senso. I toni utilizzati, confermati dai legali, erano pacati, gentili e formali, erano un tentativo civile di capire una conclusione improvvisa e fondata su un silenzio assordante e privo di senso tra adulti.
Dopo quei due messaggi, ogni contatto è stato interrotto, rimuovendo ogni connessione sui social media e bloccando il numero di telefono sia per le chiamate che per i messaggi WhatsApp. Nonostante questa condotta, è stata sporta una denuncia per presunto stalking.
Contemporaneamente, si sono verificati atti dimostrabili: messaggi diffamatori, diffusione di materiale sensibile e persino un tentato investimento con l’auto. Sono state raccolte diligentemente prove, testimonianze e documentazione di questi episodi. Ci si è rivolti ai Carabinieri e si è chiamato il 1522, il numero di pubblica utilità gratuito antiviolenza e stalking, attivato dal Dipartimento per le Pari Opportunità, ricevendo però la risposta: “Questo numero non è per uomini.” Come se fosse una questione di genere.
Un maresciallo dei Carabinieri, dopo aver esaminato le prove, ha suggerito di lasciar perdere, dicendo: “In questo paese, davanti a un giudice, oggi le donne hanno la precedenza. L’unica cosa che puoi fare, se ti puntano una pistola alla tempia, è far vedere che hai un fucile.”
Questa affermazione ha gelato il sangue, rivelando che, in quel momento e contesto, la giustizia sembrava irraggiungibile. Il sistema, pur proteggendo giustamente le donne, non appare ancora capace di riconoscere un uomo come vittima, lasciando chi lo vive solo in una battaglia impari. Una realtà sommersa ma numericamente rilevante, se si considera che secondo le rilevazioni Istat circa il 26,4% delle vittime di violenza domestica, incluse le forme psicologiche, è di sesso maschile (Fonte: Il Sole 24 Ore, su dati Istat).
Le sconfitte che segnano: un uomo e una figlia feriti dalla manipolazione
Questa vicenda è una catena di sconfitte che hanno lasciato segni profondi su più fronti. Personale, per essersi lasciati manipolare in un momento di vulnerabilità. Morale, per il potere psicologico di una persona disturbata. Professionale, per aver piegato l’integrità a richieste assurde. Familiare, la più dolorosa, con una figlia che assorbe paura e insicurezza. Etica, per la discriminazione di un sistema che non riconosce un uomo come vittima. Legale, con il consiglio di “lasciare perdere” nonostante prove di atti gravi.
Eppure, chi conosce la persona accusata sa che non ha mai mostrato atteggiamenti violenti o persecutori. Lo conferma un’ex compagna e amica, madre della figlia, con una testimonianza lucida: “Messaggi letti, sfoghi ascoltati, momenti difficili vissuti da vicino: crisi depressive, insonnia, ansia, ipervigilanza, isolamento, crollo dell’autostima. Si è visto come dinamiche manipolatorie abbiano aggravato lo stato mentale.” E conclude: “È una persona a pezzi, con una figlia che ne paga le conseguenze.”
Una lettera, mai usata per rispetto degli equilibri familiari, scritta da questa persona che ha seguito ogni fase della vicenda, e che parla da sola. Non una parte in causa, ma una testimone diretta: “Le dinamiche erano tossiche, con comportamenti manipolativi mascherati da fragilità, ma volti al controllo.”
Descrive l’impatto: “La persona vive nella paura costante di essere accusata, aggredita, incastrata in una situazione legalmente persecutoria. Non riesce più a lavorare come prima, ha cambiato abitudini, evita alcuni luoghi pubblici, spesso non esce di casa per paura di incontrare quella donna. E questo ha avuto un impatto devastante su nostra figlia.
Sulla figlia, le parole sono un pugno nello stomaco: “è una bambina sensibile e sveglia, è stata segnata profondamente da quest’ultimo anno. Da mesi presenta comportamenti regressivi e segnali preoccupanti. Il peggio è che si sente responsabile, come se toccasse a lei proteggere il genitore. Sotto c’è un disagio che gli specialisti confermano, e la causa scatenante è chiara: la pressione psicologica inflitta da questa persona.” Il trauma secondario esiste, e chi vuole tutelare un/una bambino/a non può ignorarlo.
Questa testimonianza non è frutto di complicità o sostegno cieco, come nel caso di chi è stato influenzato dalla manipolazione, ma lo sguardo lucido di chi ha condiviso quotidianità, fragilità, traumi e ricostruzioni, testimone degli effetti devastanti di certe dinamiche. “In più di vent’anni di relazione, non sono mai stati manifestati comportamenti violenti né persecutori, nemmeno verbali. Anche nei momenti più difficili”.
“È una persona schiacciata sotto il peso di richieste insinuanti, accuse velate, sensi di colpa, manipolazione mascherata da fragilità. Costantemente colpevolizzata, mai sentita all’altezza, mai ritenuta sufficiente. Un crollo emotivo dopo una vacanza: lasciata sola, ferita, mentre l’altra persona continuava la sua vita. Con messaggi che minimizzavano, mentre si chiedeva aiuto in lacrime. È stato osservato tutto, accompagnato ogni passo, offrendo consigli anche su ciò che è stato scritto e fatto, e poi accusato.” Questa verità reclama giustizia.
Conclusioni: La libertà di raccontare, la forza di non tacere
“Niente è davvero necessario, ma ogni limitazione alla libertà è una sconfitta.” La frustrazione nasce da una ragione inascoltata, soffocata da un sistema che non vuole o non sa riconoscerla. Per prudenza, e per proteggere una figlia, si evita di esporsi, seguendo il consiglio di chi, conoscendo la situazione, ha detto: “Non vale la pena.” ma non si dimentica né ci si arrende.
La giustizia legale arriverà, non come vendetta, ma per dignità. Narrare è giustizia personale, un rifiuto di insabbiare la verità senza cercare visibilità o compassione. “Non si accetta di essere etichettati ‘persecutori’ quando si cerca chiarezza e rispetto.”
Pur accettando, per ora, un compromesso legale non sentito come proprio per salvaguardare la stabilità emotiva delle persone care, non si rinuncia alla verità, alla giustizia e al diritto di raccontare. Raccontare, con prove e senza vittimismo, libera dal dolore, lasciando una traccia per chi vive situazioni simili – più numerosi di quanto si pensi – e impedendo che la manipolazione sociale si ripeta.
Non si tollera la diffamazione di un nome né l’indifferenza verso la salute psicologica di una figlia. Ogni limite alla libertà è una sconfitta, e questa storia, che riflette un sistema incapace di ascoltare, rompe il silenzio. Anche chi ha una diagnosi merita tutela. “Dimenticare non è la soluzione; ricordare bene e raccontare meglio sì.
Questa narrazione, ospitata in un blog su strategia, marketing, comunicazione e innovazione, coglie l’opportunità di dare voce a verità scomode, dove si gioca la vera innovazione: riconoscere ciò che oggi è tabù. Se un giorno questa vicenda dovesse raggiungere i giornali, si desidera sia raccontata con rispetto, onestà e voce ferma, non come cronaca sensazionalistica, ma come testimonianza di una verità che merita ascolto.
In Europa, paesi promuovono numeri unisex e sportelli psicologici dedicati per vittime maschili e formazione per le forze dell’ordine, un’innovazione sistemica che trasforma il modo in cui uno Stato comunica e agisce e che l’Italia sta iniziando a seguire seppur ancora agli inizi, con centri per uomini maltrattati (fonte: La Repubblica, Corriere della Sera). In un tempo di narrazioni distorte, questa battaglia è di chiunque creda che ogni vittima meriti ascolto.
La cautela tutela una figlia, ma la giustizia legale resta un obiettivo, senza sacrificare l’integrità. “Ricordare bene, e raccontare meglio, è la soluzione.”
Grazie Paolo!
È stata chiacchierata su temi difficili. Intensa. Ricca di spunti di riflessione su tante cose… E credo sarà d’aiuto a molti.
Michela Bobbo
Michela Bobbo