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Un uomo su una panchina sommersa dall’acqua, un giornale in mano e un titolo che non lascia scampo: Scemo chi legge. Questa immagine, ideata da Greenpeace Italia per una delle sue pungenti campagne pubblicitarie, doveva scuotere i lettori del Corriere della Sera. Ma il quotidiano ha detto “no, grazie”, rifiutando di pubblicare l’annuncio che accusava ENI di greenwashing e i media di complicità.

Altro che semplice veto editoriale: questo episodio è una finestra su un groviglio di interessi economici, accuse di censura e battaglie legali che ruotano attorno alla narrazione climatica. Con Greenpeace che punta il dito contro il colosso energetico e il Corriere che si trincera dietro un “non opportuno”, la domanda sorge spontanea: chi controlla davvero il racconto della crisi climatica?

Prepariamoci a un viaggio sarcastico tra campagne pubblicitarie fuorvianti, conflitti d’interesse e un pizzico di ironia, perché in questa storia lo “scemo” potrebbe essere più vicino di quanto pensiamo.

L’Annuncio Fantasma: Una Campagna Pubblicitaria Silenziata

Al centro della disputa c’è una campagna pubblicitaria di Greenpeace che era un piccolo capolavoro di provocazione: un’immagine di una panchina sommersa, il titolo Scemo chi legge e un testo che inchiodava ENI come maestro del greenwashing (ne avevamo già parlato), con un’occhiataccia ai media che si fanno megafono di narrazioni edulcorate. Come riportato da Il Fatto Quotidiano, il Corriere della Sera ha rifiutato l’annuncio, definendolo un “attacco diretto” a ENI e quindi “inopportuno”.

Greenpeace non l’ha presa bene, accusando il giornale di censura e di piegarsi al “ricatto delle aziende inquinanti Greenpeace Italia, 2023.

“Un giornale dovrebbe essere un baluardo della libertà d’espressione, non un guardiano degli interessi fossili”

ha dichiarato un portavoce dell’ONG.

Il Corriere si è difeso con una motivazione che sa di scusa scritta su un post-it: niente criteri chiari, solo un vago “non ci piace. Ma il rifiuto di una campagna pubblicitaria così diretta solleva dubbi: è davvero una scelta editoriale o un inchino a un cliente pesante come ENI?

Greenpeace, fedele alla sua natura, ha promesso di portare il messaggio su altre testate, perché zittirli non è mai stata un’opzione. Questo scontro mette a nudo una tensione cruciale: le campagne pubblicitarie possono essere strumenti di denuncia, ma quando toccano i big, rischiano di rimanere nel cassetto. E il lettore? Resta con un’informazione a metà, mentre il dibattito climatico aspetta.

ENI e il Greenwashing: Campagne Pubblicitarie con un Filtro Verde

Greenpeace non ha scelto ENI a caso per la sua campagna pubblicitaria. Il colosso energetico italiano è un habitué delle accuse di greenwashing, ovvero quell’arte di dipingersi di verde mentre si continua a pompare combustibili fossili. Un rapporto di Greenpeace del 2023 evidenzia come ENI investa massicciamente in campagne pubblicitarie che promuovono il gas naturale come “energia pulita”.

Peccato che, come rivela un’indagine di Clean Air Task Force (2024), le perdite di metano negli impianti ENI siano un problema serio, con un impatto climatico devastante, visto che il metano è 80 volte più potente della CO2 nel breve termine.

“Parliamo di transizione ecologica, ma il 99% dei nostri investimenti resta su petrolio e gas”

sembra dire ENI, parafrasando i dati di InfluenceMap (2025), che mostrano come solo l’1% del budget aziendale vada alle rinnovabili pure.

E poi ci sono le soluzioni “miracolose” sbandierate nelle loro campagne pubblicitarie: cattura del carbonio, biocarburanti, idrogeno verde. Ma, come sottolinea Climate Analytics, queste tecnologie sono spesso sovrastimate in termini di scalabilità e impatto reale. ENI, però, non si fa scrupoli: le sue campagne pubblicitarie, da spot patinati a publiredazionali, vendono un’immagine di sostenibilità che stride con la realtà.

È il classico trucco del prestigiatore: distrai il pubblico con un bel fiocco verde, mentre il pianeta continua a soffocare. E il pubblico, bombardato da queste narrazioni, rischia di bersi la storia del “gigante buono” senza farsi troppe domande.

La Giusta Causa: Una Battaglia Legale contro le Campagne Pubblicitarie di ENI

La campagna pubblicitaria di Greenpeace si inserisce in un contesto più ampio: la causa legale La Giusta Causa, lanciata nel 2023 da Greenpeace Italia, ReCommon e cittadini contro ENI, il Ministero dell’Economia e Cassa Depositi e Prestiti. L’accusa è pesante: ENI contribuisce consapevolmente alla crisi climatica, violando diritti umani fondamentali come il diritto alla vita, sancito dagli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Come riportato da ReCommon, la causa si ispira a precedenti europei come Urgenda in Olanda, cercando di inchiodare ENI per i danni climatici passati, presenti e futuri.

“Vogliamo che i responsabili paghino, non solo a parole”

ha dichiarato un attivista di Greenpeace.

ENI, però, non è tipo da porgere l’altra guancia. Ha risposto con un’eccezione di giurisdizione, sostenendo che un tribunale civile non può giudicare le sue scelte industriali Il Sole 24 Ore, 2024.

Non solo: ha avviato cause per diffamazione contro Greenpeace e ReCommon, definite da queste ultime come SLAPP (cause bavaglio) per intimorire i critici Greenpeace, 2023. E, per non farsi mancare nulla, ENI ha creato una pagina web dedicata a smontare La Giusta Causa, chiamandola una “falsa causa” basata su “pregiudiziENI, 2024.

Ironia della sorte: mentre le loro campagne pubblicitarie vendono sostenibilità, le aule di tribunale raccontano un’altra storia. Se ENI vince sull’eccezione di giurisdizione, potrebbe chiudersi la porta a future cause climatiche in Italia. Un bel colpo per la giustizia ambientale, no?

Il Potere dei Soldi: Come le Campagne Pubblicitarie di ENI Influenzano i Media

Perché il Corriere ha detto no alla campagna pubblicitaria di Greenpeace? Forse perché ENI è un cliente troppo importante. Secondo Valori (2023), ENI è uno dei principali inserzionisti del quotidiano, con decine di campagne pubblicitarie che includono publiredazionali e “sovracopertine verdi” come quella per l’Earth Day 2022.

“ENI non compra solo spazi pubblicitari, compra narrazioni”

scrive Valori, sottolineando come la copertura del Corriere su ENI tenda a essere zuccherosa, con pochi articoli critici. Il gruppo RCS, controllato da Cairo Communication, dipende fortemente dalle entrate pubblicitarie gestite da CairoRCS Media, e un cliente come ENI non è uno che si vuole far arrabbiare.

Un aneddoto riportato da Il Fatto Quotidiano (2024) racconta di un redattore che si è visto bloccare un pezzo critico su ENI perché “non si morde la mano che nutre”. Coincidenza? Forse. Ma quando le campagne pubblicitarie di un colosso fossile diventano una presenza fissa, il rischio di autocensura si fa concreto.

Il Corriere non è un’eccezione: un rapporto di Covering Climate Now (2024) evidenzia come i media mainstream spesso evitino di sfidare i grandi inserzionisti fossili per paura di perdere introiti. E così, mentre ENI inondava le pagine con messaggi di “sostenibilità”, la campagna pubblicitaria di Greenpeace, che osava dire la verità, è rimasta fuori. Che bella lezione di pluralismo, vero?

Un Problema Globale: Campagne Pubblicitarie e la Cattura della Narrazione Climatica

Il caso italiano è solo un tassello di un puzzle globale. L’industria fossile, ENI inclusa, ha affinato l’arte di controllare il dibattito climatico attraverso campagne pubblicitarie e altre strategie. Secondo Climate Home News (2024), le major petrolifere spendono miliardi in pubblicità e lobbying per dipingersi come paladine della sostenibilità, mentre ostacolano politiche climatiche ambiziose.

ENI, ad esempio, ha lanciato campagne pubblicitarie già nel 2010 per “riposizionarsi eticamente” con spot su “innovazione” e “rispettoValori, 2023. Ma, come nota InfluenceMap, queste narrazioni sono spesso fumo negli occhi: le emissioni continuano a salire, e il gas “pulito” è tutt’altro che innocuo.

A livello globale, le tattiche includono native advertising, che confonde i lettori mischiando informazione e promozione, e cause bavaglio contro i critici UNESCO, 2025. Un sondaggio UNESCO rivela che il 70% dei giornalisti ambientali subisce pressioni, e il 45% si autocensura per paura di ritorsioni o conflitti con gli inserzionisti.

“Se scrivi contro un big fossile, rischi la carriera”

ha confessato un giornalista anonimo. Il risultato? Un pubblico confuso, sfiduciato e meno incline ad agire contro la crisi climatica. Le campagne pubblicitarie di ENI e soci non sono solo spot: sono un’arma per plasmare la narrazione e silenziare le voci critiche, come quella di Greenpeace. E mentre il pianeta si scalda, qualcuno brinda con il gas “verde”.

In conclusione

Scemo chi legge? Forse, ma solo se il lettore si beve tutto senza porsi domande. Il rifiuto del Corriere della Sera di pubblicare la campagna pubblicitaria di Greenpeace non è solo una disputa editoriale: è un sintomo di un sistema mediatico che fatica a restare indipendente quando i colossi fossili come ENI tirano fuori il portafoglio.

Tra campagne pubblicitarie che vendono sogni verdi, cause legali per zittire i critici e un’informazione che naviga in acque torbide, il caso è un monito: la libertà di stampa è fragile, e la crisi climatica non aspetta chi si gira dall’altra parte.

Greenpeace continuerà a gridare, ENI a difendersi con i suoi spot patinati, e il Corriere a destreggiarsi tra etica e fatturati. Ma il lettore? Sta a lui alzarsi dalla panchina sommersa e chiedere un’informazione che non sia solo un’eco delle campagne pubblicitarie dei potenti. Perché, in un mondo che affoga, leggere con occhio critico è l’unico modo per non essere davvero “scemo”.

    One Response

    1. Tutto in salita quindi per i cittadini vittime dell’ENI e delle autorizzazioni comunali… dall’invivibilità, ai rischi sanitari e ai deprezzamenti immobiliari.
      A dir la verità neanche Greenpeace, di cui sono sempre stato sostenitore, ha voluto rispondere alla mia e-mail

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